Da ormai diversi giorni sentiamo parlare di Turchia, di un popolo che, stufo della propria condizione, cerca di far valere i propri diritti, di far sentire la propria voce e riscattare la perduta democrazia. Un popolo, per certi versi, molto vicino a noi, raccontato in diretta da Marco Vitale che in questi giorni sta vivendo la PrimaVera Istanbul.
PrimaVera Istanbul
6 Giugno 2013 – ore 19.15
…e se possibile, stavolta mi pare più strana della prima…
Sono sul bus dall’aeroporto verso il centro. Istanbul è di nuovo qui di fronte a me. L’orizzonte non si vede, solo un susseguirsi di case, moschee, palazzi, ponti. Come se qualcuno, un giorno, avesse deciso di costruire più città tutte qui.
Di fianco a me c’è un signore turco, sulla sessantina, che, appena tiro fuori carta e penna, capisce che “non sono propriamente autoctono” e mi chiede, solo per far due chiacchiere, da dove vengo, perché ecc…
Il bus prosegue, in un insolito traffico scorrevole, stavolta non arriverò a Taksim, per ora i pullman non fermano più lì.
Ho sensazioni contrastanti dentro di me. A meno di una settimana dagli scontri qui in città, mi trovo qui, conoscendo le cose solo da racconti o letture in giro per il web. Mi sento curioso, agitato e fortunato per essere qui in questo momento, difficile e violento, ma sicuramente storico per la Turchia tutta.
Voglio provare a capire davvero, raccogliere sensazioni di chi questa città la vive da sempre e ce l’ha tatuata dentro il cuore.
Il sole è ancora alto, velato da nuvole sottili. Attendo solo di scendere dal pullman e trovarmi, di nuovo, nel cuore di questa favolosa città fatta di mille sfumature, volti, suoni e colori…
Prendo la Metro e devo fare un cambio, proprio a Taksim, appena scendo dalla Metro sento un fragoroso applauso, è la protesta che continua, che più civile non si può. Ad ogni Metro che arriva, apre le porte… applauso… sorrisi… parole di incoraggiamento e speranza.
Uscito dalla Metro, per le strade, c’è un gran casino. Clacson, voci, suoni. Anche qui la protesta pacifica, tantissime bandiere turche con il volto del “padre” Atatürk. E poi gente dalle finestre delle case che sbatte pentole con cucchiai o caffettiere. Le persone in strada ricambiano con applausi.
È la protesta che diventa fratellanza e costruisce una comunità ancora più forte. Tutti uniti, uomini, donne, giovani, bambini, anziani, per riprendersi un po’ di democrazia perduta.
#stay tuned
7 Giugno 2013
La notizia di oggi è che ieri sera, oltre al sottoscritto, è arrivato in città anche il contestato Primo Ministro Erdogan, di ritorno da una “trasferta istituzionale” di qualche giorno (dice lui). Stamattina leggo sul giornale che all’aeroporto erano circa in dieci mila a supportarlo, lui parla ai suoi sostenitori da un pullman scoperto.
Esco per far colazione e le vie di Nişantaşı, quartiere non lontano da Taksim, sono bloccate dal traffico, ma niente può fermare le mani della gente alla guida incollate al clacson come se non ci fosse un domani.
Se non ci fai caso, sembra che il tempo scorra normalmente come un normalissimo venerdì mattina di sempre. In realtà, camminando si nota un mare di bandiere turche, molte di più del normale. Sui balconi, alle finestre delle scuole, sul cruscotto dei taxi, ci sono perfino anziani uomini che camminano con decine di bandiere sulle spalle cercando di venderle. Stamane c’è un’aria diversa.
Ad un certo punto, passeggiando, vedo davanti a me uno dei camion blindati con annesso idrante che la polizia ha utilizzato in questi giorni. In turco si chiamano “toma”, è parcheggiato, sporco e con i vetri crepati. Dietro, quattro pullman di linea con decine di poliziotti, alcuni fuori che fumano, altri dentro che dormono o parlano, rigorosamente in divisa e manganello in vista, sommersi di caschi e scudi antisommossa.
Ecco, di fronte al camion, ho ripensato all’applauso nella metro di ieri e a quella signora anziana, sorridente e decisa, sbattere una padella fuori dalla finestra. Due mondi totalmente paralleli.
Ora mi metto a scrivere di Taksim, sono appena tornato. Testa in palla mentre passeggiavo là in mezzo mezz’ora fa.
Non si può spiegare, ora nelle orecchie sento solo “HER YER TAKSIM, HER YER DIRENIS!!!”
#occupygezi
TAKSIM-GEZI PARK, la rivolta pacifica a Istanbul
Ok. Ci provo. Il treno della metro si ferma. Taksim. Ovviamente applauso. Applauso a chi, come me, scende dal treno per raggiungere la piazza e il parco. È una sorta di cambio per mantenere l’occupazione. “Ok io vado un attimo a casa, ma applauso a voi che arrivate…” sembra dire la gente che va.
Mentre percorro i lunghi corridoi della stazione provo a immaginare cosa troverò uscito da là sotto.
Ho preso la direzione verso l’uscita “Gezi Park”, quella che ti porta dritta nel cuore del parco. Ultima scala mobile, i cori, i fischietti e gli applausi si sentono già da qualche decina di metri.
Sono dentro Gezi Park. Il numero di persone presenti è incalcolabile. Davvero. È pieno di manifestanti tutto il giorno, ma alla sera arrivano tutti quelli che di giorno lavorano.
Sono più o meno le 21.30 e non c’è molta luce, a parte alcuni punti illuminati artificialmente. Subito penso che questo parco non è stato occupato, ma è stato riconquistato. Suoni, colori, profumi, sguardi.
Le tende che i poliziotti hanno bruciato la settimana scorsa ora sono centinaia, forse migliaia, non so dire. C’è praticamente una nuova città nella città.
Sento voci confuse, la gente si ritrova e discute, scandisce cori fortissimi, applausi di incoraggiamento, canti, i fischietti impazziscono, musica ovunque.
Vedo bandiere della Turchia, striscioni appesi agli alberi, ai lampioni, tende colorate, maschere bianche di “V per Vendetta”.
Si fa fatica a camminare perché la gente è tantissima, sembra una gigantesca sagra di paese, una festa enorme in cui non possono mancare banchetti dove si vende acqua, birra, çay (ovviamente, come può mancare il te??), ma anche kofte (polpette di carne), simit, frutta.
Giro tutto il parco, tra le aiuole occupate dalla gente, sotto ognuno di questi alberi ormai simbolo di una rivoluzione che prima di essere politica, sta dentro la testa e il cuore della gente. C’è un’infermeria, una libreria (!!!), uno spazio dove si proiettano film, banchetti informativi con la rassegna stampa di queste giornate.
La sensazione è che la gente abbia scelto di trasferire qui tutto quello che si fa normalmente a casa prima e dopo il lavoro. Si, perché la posta in gioco è alta, e non sono solo i 600 alberi, qui si è mosso qualcosa davvero, qui si stanno rifacendo i conti di 11 anni di Erdogan.
[Mentre mi guardo intorno, mi chiedo se i “nostri” 20 anni non siano ancora abbastanza per farci agire in qualche modo, ma va beh…]
Superato tutto il parco esco sulla piazza, quella piazza che da sempre è il simbolo di laicità e luogo di incontro. Piazza dalle mille sfumature e, da sempre, vetrina di ogni manifestazione qui a Istanbul.
Lungo le parti più esterne della piazza, rivolte alle vie laterali ci sono i ricordi di venerdì e sabato scorso. Barricate di lamiere ovunque, due pullman e alcuni furgoni della polizia sventrati che, ovviamente, diventano tappa fissa per foto ricordo. Sulla sinistra un palazzo gigante la cui facciata si è trasformata in un muro immenso su cui affiggere gli striscioni della Resistenza. Nella piazza si vendono mascherine e occhialini da piscina (“just in case”) e volano decine di mini-mongolfiere cariche di desideri.
La gente nella piazza, così come all’interno del parco, balla, sorride, brinda. Perché qualcosa di nuovo sta davvero succedendo.
Questa volta, e questo, almeno all’inizio, ha un po’ scioccato anche gli stessi manifestanti, si sono trovati tutti nella stessa piazza senza far caso al colore politico, all’origine, al genere o all’età. Ho visto gente in giacca e cravatta, signore anziane con la maschera di V per Vendetta (spettacolari!!), bambini mangiare un panino sulle spalle del papà sorridente.
Ritorno nel parco per fare l’ultimo pieno di sensazioni e profumi di questa Rivoluzione. Ripenso che questa non è solo una protesta, qui è successo altro. Non a caso il poliziotto più vicino è quello che ho visto a 3 fermate di metro, dormire dentro il pullman immerso di scudi… per ora.
Un ultimo coro per “Taksim che resiste e continuerà a resistere”, poi facendomi spazio nella folla, ritorno nel tubo sotterraneo. Sono quasi le 11.30, ma l’orologio qui non ha alcun senso, si è fermato.
Occhi sgranati, il treno arriva. Ora tocca a me applaudire, chi si dirige nella piazza ricambia con un segno di vittoria. Ancora applausi.
Si chiudono le porte e nelle mie orecchie risuona quel vento di cambiamento che voglio già tornare a vedere.
Prima#Vera Istanbul
8 giugno 2013
Oggi è giornata di addentrarsi un po’ in città da turista. Dopo una classica colazione a casa, con immancabile çay, formaggio, olive, pane caldo con burro, si va verso Karaköy, quartiere medievale, uno dei più storici della città, che un tempo si chiamava Galata. Infatti è quasi obbligatorio un salto sulla torre (Galata Tower) da dove si può vedere [quasi] tutta Istanbul.
La vista mozza il fiato, non tanto per l’altezza, ma per la quantità di cose che si vedono da lassù. Ci si potrebbe passare la giornata, senza aver scovato tutto.
Poi, come detto, bisogna addentrarsi un po’ di più e, inaspettatamente, percorro una via che più tradizionale di questa boh… osservo in sequenza: un gruppo di uomini fuori da un cancello, controllato dalla polizia, che non si capisce bene cosa sia, probabilmente un bordello, una serie di WC che risultano delle sale 3X3 totalmente visibili sulla strada con un vecchietto alla cassa, un garage completamente sgangherato dove per 5 lire turche puoi sparare piombini contro un muro di palloncini colorati (ma perchè???), un’officina per motorini all’aperto, un matrimonio turco super tradizionale con costumi tipici e musica e, per finire, un parrucchiere al cui interno l’unico cliente è a torso nudo sulla grande sedia che si sta facendo tagliare i peli del petto.
Wow, mi dico, in questi 50 metri ho fatto il pieno. Ho bisogno di una birra, Efes naturalmente, non lontano dalla costa.
Più tardi si torna a casa, per un aperitivo con amici. Tutti turchi, poi un ragazzo francese, qui a Istanbul da 3 settimane in cerca di un lavoro. L’argomento principale è Istanbul, OccupyGezi, Taksim.
Sono circa le 21 quando inizia un gran casino fuori, nella via, chi detta legge è la signora del palazzo di fronte: pentola, cucchiaio gigante e giù a picchiare come non mai.
Tutto intorno, anche da molto lontano, clacson, fischietti e pentole sbattute, alzi lo sguardo e tutti i palazzi si illuminano a intervalli regolari. E la protesta fatta da casa, da chi non può essere in piazza.
Solidarietà, ma stesso impegno nel voler esserci e far vedere, anche dal settimo piano che si resiste eccome.
Quattro degli amici sono appena tornati da Gezi Park, sembra che stasera ci fosse un mare di gente, più di ieri sera.
I loro sguardi sono felici, ma preoccupati allo stesso tempo, perché non si sa cosa potrà succedere. Alcuni non sono molto positivi, “ci dimentichiamo in fretta di queste cose” dice Neslihan… “a chi lo dici”, penso io…
Sono comunque decisi, tutti loro, finito il lavoro, si recano a Taksim. C’è bisogno, c’è voglia, la routine quotidiana può aspettare… la democrazia no.
9 giugno 2013
Dopo una leggera colazione, stamattina mi incammino tra il quartiere Besiktas, verso il mare, per prendere il battello che porta “dall’altro lato”, la parte asiatica di Istanbul.
Venti minuti per attraversare il Bosforo e attraccare al porto di Kadikoy, distretto e comune della città di Istanbul che, da solo, fa circa 530.000 abitanti (!!!).
Dal battello salta all’occhio la differenza con la parte “europea”: enormi grattacieli, quasi sempre accoppiati come architettura, da una parte (non dico quale…), case più basse, più verde in generale il paesaggio, dall’altra.
Subito mi inoltro nelle stradine più affollate di gente, molti turisti, ma soprattutto molti abitanti locali. Fa molto caldo, ci sono circa 30 gradi oggi, ma l’aria che proviene dal mare non fa quasi sentire il calore del sole.
Alcune delle vie in cui mi inoltro sono parecchio strette, ma la folla di persone rimane tale. C’è un mercato alimentare, banchi di verdure e di pesce giganteschi con i proprietari che urlano e ti prendono quasi per mano pur di farti comprare mezzo kg di sardine: ”BUYRUN BUYRUN!!!” – “Prego, di niente…”, si sente risuonare tra un banco e l’altro. Il profumo di spezie e di the è invadente e mix perfetto allo stesso tempo.
Mangio prima il “börek”, una pasta sfoglia arrotolata in diversi modi ripiena di carne macinata, spezie, formaggio. Uno spettacolo vero, accompagnata da una birra media è pure meglio.
Poi “Lahmacun”, la classica pizza turca. Di fianco, nei locali vicini, signori autoctoni mangiano incessantemente pesce e verdure varie , commentando il TG che fa vedere Erdogan e scolandosi litri di “Raki”, molto simile al nostro Pastis.
Verso le 19.30 vado verso il quartiere che si chiama “Moda”. A questo punto manca solo bersi un çay caldo in un tipico “çay garden” che ha una spettacolare terrazza sul mare, da dove posso godermi uno stupendo tramonto dietro alla collina di Sultanahmet.
Ah no, manca un’altra cosa, sono le 21.00 in punto. Da lontano, negli appartamenti inizia a sentirsi suono di padelle, per strada clacson e fischietti.
Ogni sera è così, la gente si è presa mezz’ora al giorno per far sentire che cosa pensa della situazione che sta investendo tutto il Paese.
Sto tornando verso il porto, da dove prenderò un taxi in comunità con altri turisti e non per tornare verso casa. Passo attraverso tutto il quartiere e mi associo, applaudendo, alla protesta.
Come ogni sera c’è chi sbatte cucchiai, padelle, caffettiere, ma stasera vince lei: dal quarto o quinto piano di un palazzo il rumore è decisamente più forte di quello di un pentolino. Alzo gli occhi e in realtà il pentolino c’è, solo che la distinta signora lo sta sbattendo direttamente sull’antenna parabolica appesa alla sua finestra. “Già che siam qui a farci sentire, facciamolo bene e con stile…” avrà pensato.
Non posso che rivolgerle un personale, caloroso applauso e con questa immagine me ne torno a casa.
Domani ricomincia la settimana, sono curioso di sapere come Taksim e Gezi Park continueranno questo viaggio cominciato ormai 2 settimane fa.
#resistanbul #occupygezi
10 giugno 2013
Taksim di giorno.
Oggi ho scelto di far solo una cosa. Anzi due. Tornare nella zona di Karaköy, perdendomi nelle stradine infinite attorno alla Torre Galata per comprare un piccolo strumento musicale a mia nipote, e passare qualche ora a Taksim e Gezi Park, per viverlo di giorno.
Così nel pomeriggio soddisfo la mia curiosità da turista tra negozietti fichissimi, poi ripercorro Istiklal Caddesi al contrario. Letteralmente “viale dell’indipendenza” che, se cerchi su wikipedia, pare sia percorsa da circa 3 milioni (si, tre milioni) di persone al giorno nei fine settimana. Ecco, i numeri son più o meno questi.
La ripercorro al contrario dicevo, dalla Torre Galata. I circa 3 km di strada pedonale sfociano in piazza Taksim, sono le 16.00.
La piazza di giorno è, se si può dire così, meno affollata della sera, c’è un gran casino comunque, non che ci si senta soli, ma oggi c’è un’atmosfera davvero bella. Sole pazzesco e circa 30 gradi. L’intento è quello di farmi un giro più possibile lungo e scattare qualche foto.
Passo una mezz’ora nella piazza, tra bancarelle che vendono bandiere, maschere (ho visto anche quella del tipo di Gangnam Style, va beh…), simit, fette di anguria e altri cibi tipici.
L’interno del parco è molto diverso visto di giorno. Non ci sono concerti, ne comizi, la gente è sempre tantissima e si provvede a ripulire il parco, sistemare le zone fiorite, portare taniche di acqua nei punti di ristoro.
Molta gente dorme, perché la notte non si può, ci sono dei bimbi che giocano a calcio, signore sulla sessantina che tornano nella loro tenda con le buste della spesa, giovani e meno giovani che discutono bevendo çay.
Ci si mette davvero poco a entrare in una dimensione di vita quotidiana che potrebbe essere assolutamente normale, quasi dimenticandosi che si tratta della più grande protesta e occupazione turca di sempre.
Le immagini più belle sono l’angolo della biblioteca, nata quasi per caso su iniziativa di una ragazza, lo spazio per i bimbi con colori e giochi vari, un mare di tende super organizzate, l’orto botanico (curato da un gruppo di persone che ha ingegnato un sistema di irrigazione ad ogni singola piantina con delle sorte di flebo) e poi tavolate fuori da molte tende di famiglie intere, che si sono letteralmente trasferite lì.
Vedendo ciò, sembra quasi impossibile che il Primo Ministro Erdogan sia capace di ordinare di lanciare i lacrimogeni dagli elicotteri per far sgombrare il parco.
Parlando con qualcuno in giro, una delle cose che più si sottolinea è che i cittadini stanno continuando a fare la vita normale, lavorando. Ma dopo il lavoro c’è quasi il dovere di recarsi a Gezi Park, per continuare la resistenza e, forse non a caso, in lontananza, sento un sottofondo musicale con “Bandiera Rossa” prima e “Bella Ciao” poi, in turkish style. 🙂
L’atmosfera è davvero grandiosa, ma mi sento quasi in colpa a girare qui a caso come il peggio turista alla ricerca della fotografia perfetta o altro.
Parlando con un po’ di persone però mi sono accorto che c’è una gran voglia di “far sapere”, di informare, di parlare anche fuori dalla Turchia. Perché la TV e i giornali non conoscono quello che sta succedendo e soprattutto perché sta succedendo. Tutto è rimasto a “quei seicento alberi che Erdogan vuol tagliare per costruirci un centro commerciale”, ma qui la gente parla di Erdogan che vuole cancellare la memoria di Atatürk, il padre della Repubblica Turca, abbattendo luoghi costruiti proprio dal padre fondatore (l’Atatürk Cultural Center per esempio) e dividendo nettamente la popolazione tra etnie e credenze religiose. C’è una profonda differenza.
Per tutto questo, quando ho visto così molti bimbi vivere il parco, la piazza, la protesta, ho tirato un lungo respiro di sollievo. La memoria non si deve cancellare, ma deve resistere, con loro.
#occupygezipark
11 giugno 2013
Come si può apprendere dalla maggior parte dei media, oggi anche a Istanbul sono tornati gli scontri con la polizia.
Dopo Ankara, dove ieri un manifestante è stato colpito alla testa da un colpo di pistola, alle 6 di stamattina, circa 5000 poliziotti si sono diretti a piedi verso Taksim con centinaia di camion blindati e “toma” (i camion con i cannoni di acqua), per cercare di sgomberare la piazza e il parco, ancora occupato da migliaia di cittadini.
Verso le 14.30 cammino a piedi lungo la lunga via che arriva a Gezi Park, ma dalla parte posteriore. In lontananza si vede fumo nero e sempre più gente con mascherine, acqua e limoni in mano che tornano dalla zona calda.
Sono a circa 500 metri dalla piazza dove, da una parte, c’è la polizia attorno ai camion blindati, dall’altra centinaia di manifestanti che tentano di non arretrare nonostante il lancio di lacrimogeni. In mezzo un camion in fiamme e barriere costruite con lamiere, pietre e tutto quello che si trova per strada.
Gli attacchi della polizia sono sistematici, ogni tot minuti sparano qualche lacrimogeno verso la prima frangia di manifestanti, che ritornano sui propri passi, prendono aria e acqua da chi sta più dietro e poi, piano piano, si torna avanti per non perdere metri e non permettere lo sgombero.
C’è chiunque. Ragazzi giovani, donne che offrono acqua, ragazzini di massimo 15 anni che sono i primi ad affrontare lo scontro.
Faccio il giro costeggiando tutto il parco e vado verso l’altra parte della piazza che è stranamente pacifica, con addirittura decine di poliziotti che si riposano dal grande caldo, mangiano e bevono insieme ad alcuni manifestanti.
Parlano, i manifestanti, sembrano quasi chiedere perché… “perché state facendo parte di questo sistema di violenza e brutalità??”
L’aria è acre per via dei lacrimogeni e del vento che spinge il fumo in questa direzione. Passo all’interno del parco che sembra quello di tutti i giorni, c’è chi pulisce le stradine, chi dorme, chi gioca a carte.
In lontananza, però, si sentono voci confuse e soprattutto spari. Da dentro al parco, mi affaccio dalla parte, in un punto rialzato, dove stanno avvenendo gli scontri. Stesso fumo nero, stesse centinaia di persone che cercano di resistere agli attacchi dei poliziotti. Ad un certo punto pare che attacchino anche dalle vie laterali, quindi ogni tanto l’attenzione si sposta lì, per cercare di allontanare i gas lacrimogeni tirati dalla polizia.
Piano piano la polizia avanza e si sentono decine di spari, ancora gas per disperdere la folla. Devo allontanarmi, indietreggio da dentro il parco, che è sicuramente più sicuro della via laterale e arrivo al fondo, circa 400 metri dal primo cordone di manifestanti.
Purtroppo un ragazzo è stato colpito, forse proprio da un lacrimogeno, e viene portato via in barella di fretta e furia verso la prima ambulanza più vicina. Dal fondo della via c’è incoraggiamento verso i manifestanti, i motorini corrono avanti per portare acqua, limoni, nuove maschere… tutto ciò che serve per resistere.
È un bel casino, Erdogan aveva detto “i manifestanti pagheranno un prezzo…”, non proprio parole da leader democratico e aperto al dialogo.
La Resistenza va avanti, Gezi continua ad essere occupato e io… sto con loro.
Her Yer Taksim!!!
12 giugno 2013 – ultimo giorno
Tempo di tornare, purtroppo. Il mio soggiorno a Istanbul è finito e sto rientrando verso il vecchio continente.
Stamattina pioveva, e la temperatura si è abbassata di parecchio. Se penso a ciò che è successo ieri sera a Taksim e Gezi Park forse è meglio così, l’aria si sarà pulita almeno un po’ dalle centinaia e centinaia di lacrimogeni che, ancora, la polizia ha sparato sulla folla per sgomberare.
Da ogni punto della città, ieri sera, si sentivano ambulanze che andavano e venivano da Taksim.
Anche a diversi quartieri di distanza l’aria a un certo punto è diventata irrespirabile e irritante per gli occhi e la pelle.
Traffico impazzito e gente fuori dai locali che guardava le notizie, sperando che nessuno si facesse male.
La polizia ha sgomberato la piazza facendo forza con i gas, getti d’acqua fortissimi (anche su un signore in sedia a rotelle). I manifestanti hanno indietreggiato verso il fondo del parco dove il Divan Hotel, situato all’inizio di Gezi, verso le 22.30 ha aperto le sue porte per accogliere le persone e dar loro riparo.
Poi, in assetto da guerra, sono entrati anche nel parco e hanno iniziato a distruggere tende, tavoli, chioschi, zaini, continuando a sparare lacrimogeni verso il fondo, sono state bruciate le tende e tutto ciò che potevano eliminare dell’occupazione.
I racconti delle persone per strada, scappate dal parco, sono tesi e carichi di rabbia. C’è chi piange sapendo di aver perso le proprie cose dentro il parco, c’è indignazione verso uno sgombero forzato che non ha guardato in faccia a nessuno. Donne, giovani, bambini, disabili!!!
Ultimo giorno a Istanbul 2013, PrimaVera IstanbulIl sindaco di Istanbul si è premurato, in tv, di far portare via i bambini dal parco perché “ci sono serie possibilità di rimanere gravemente feriti”… se non peggio.
Trovandomi a circa 3,5 km dal parco, il suono delle ambulanze è inquietante, una sensazione davvero brutta, l’immagine che ho avuto in testa pensando alle tende bruciate dai poliziotti mi stringe lo stomaco. Si va avanti tutta la notte.
Ora sto tornando a casa, è stato un viaggio intenso, certo ora è complicato parlare di Istanbul senza pensare alla rivoluzione che sta avvenendo in queste settimane.
Una frase famosa riguardante questa città dice: “They call it chaos, we call it ISTANBUL”.
Ecco, Istanbul è un altro modo di dire caos, o forse è proprio un altro significato della parola caos.
Questa città non dorme mai, le luci sono sempre accese, il traffico è bloccato dai taxi alle 4 di mattina.
Ovunque e a ogni ora puoi mangiare un piatto di carne o un simit, bere un thè caldo, gli uomini del thè si fanno chilometri ogni giorno facendo il giro dei negozi con il loro vassoio portando un numero infinito di tazzine suonanti a chi lavora. A ogni angolo puoi vedere gente che si fa lucidare le scarpe, facendo quattro parole col vecchio signore e il suo banchetto. Prendi un taxi al volo che ti incollerà al sedile facendo il pelo a ogni pedone, motorino o pullman che sia. I taxisti qui hanno scoperto che guadagnano di più facendo molti viaggi piuttosto che facendo passare anche le formiche sulle strisce pedonali o non mettendo mai la terza.
Per strada, nei negozi, nella metro si trova chiunque. Persone provenienti da ogni regione, che parlano lingue diverse, ma che alla richiesta di un’informazione ti prendono per mano e ti accompagnano fino a quello che cerchi.
Ci sono quartieri molto difficili, certo, gente molto povera che, in molti casi, rientra nel grosso giro del racket, bimbi anche molto piccoli che vengono messi sulle strade per vendere fazzoletti o suonare il flauto con una scatolina di cartone davanti. Ciechi e altri disabili messi sui marciapiedi ad hoc, di sera, per chiedere l’elemosina.
Tutto ciò, purtroppo, diventa persino normale in una città di circa 18 milioni di abitanti.
Nel suo caos, però, Istanbul è una città meravigliosa. La sua posizione geografica sommata alla sua storia imperiale fanno convogliare qui le energie e le culture di decine di popoli e più continenti.
Istanbul è infinita, per vastità, angoli inesplorati, storia.
Una città all’interno di un Paese quasi impossibile da immaginare, ma tappa obbligatoria dei viaggi di ognuno.
Avevo detto di essere curioso e sentirmi fortunato potendo essere qui in questo momento. Difficile da dimenticare.
Adesso tutte le fotografie che ho in testa mi stanno passando velocemente come in quelle macchine fotografiche da guardarci dentro che si compravano da piccoli.
La pellicola continua a scorrere… fino alla prossima volta…
Prima#Vera Istanbul – Giugno 2013
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